mercoledì 28 agosto 2013

Cure per la sindrome di Down? L'Italia non ci crede



Ricerca all’avanguardia. Strippoli (Università di Bologna): Si investe di più in altri settori. Il nostro scopo? Identificare composti naturali o farmaci la cui miscela inibisca le attività presenti in eccesso nelle cellule trisomiche.

«Alla fine degli anni settanta, il professor Lejeune era convinto che si potesse trovare una terapia per curare la sindrome di Down, una patologia che è considerata irreversibile nella mentalità comune, essendo particolarmente complessa». Lo spiega Pierluigi Strippoli che guida un’equipe di ricerca sulla sindrome di Down nel Laboratorio di Genomica del dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale dell’Università di Bologna.

Lejeune come era arrivato a questa considerazione?
Si rese conto che il cromosoma in più presente nei bambini Down produceva un eccesso di proteine. L’uomo normalmente ha due cromosomi che producono una certa quantità di proteine. Con un cromosoma in più quelle proteine sono in eccesso. Definì questo fatto un’intossicazione cronica. Un’intuizione straordinaria perché di fronte a una struttura genetica alterata la medicina si sente impotente. Al contrario davanti a un’intossicazione si può agire identifi- cando il componente in più e provando a inibirlo o a rimuoverlo.

La ricerca sulla sindrome di Down però a tutt’oggi non è tra le più sviluppate...
In Italia e non solo si investe di più sulle cosiddette malattie monofattoriali, dovute a singoli geni. Le ricerche sulla trisomia 21 sono portate avanti da pochissimi gruppi in tutto il mondo. Situazione paradossale perché si tratta di una condizione genetica molto comune.

I gruppi di ricerca come si rapportano alla materia?
A livello internazionale ha preso piede la ricerca con alcuni ceppi di topi che possono mimare alcuni aspetti della trisomia 21. Poi ci sono gruppi di ricerca in biologia e in genetica molecolare. Noi cerchiamo di unire lo studio degli aspetti clinici con l’analisi delle mappe del cromosoma 21, che stiamo contribuendo a completare. Dopo 20 anni di ricerche in laboratorio, mi sono reso conto che era fondamentale tornare in reparto per identificare soggetti con caratteristiche che potrebbero illuminare alcuni aspetti della sindrome. Strategia che mi ha consigliato la stessa moglie di Lejeune.

Metodo già applicato da lui...
Ho iniziato a leggere i suoi lavori della fine degli anni settanta e mi hanno letteralmente illuminato. Cosa del tutto insolita dal momento che in medicina un testo che ha compiuto un anno è considerato vecchio. Lejeune aveva capito che si potevano legare tutti i sintomi della malattia a specifiche attività biochimiche codificate nel cromosoma. Ha compiuto studi biochimici per capire quali vie metaboliche fossero principalmente alterate nella sindrome. Oggi abbiamo la possibilità di continuare questi studi con strumenti molto più avanzati.

Qual è il vostro punto di forza?
Stiamo analizzando a livello bioinformatico l’attività dei geni del cromosoma 21 anche nei tessuti normali, per identificare quelli maggiormente espressi negli organi più colpiti dalla sindrome: il cervello, il cuore e la tiroide. Vogliamo identificare le regioni critiche del cromosoma che sono le principali responsabili dei sintomi. Solo quando questo sarà stato fatto potremo ipotizzare una terapia razionale.

A cosa serve oggi capire se un bambino è Down prima della nascita?
Concretamente l’unica reale applicazione della conoscenza prenatale risiede nel prevedere con maggiore tempestività cure cardiologiche e cardiochirurgiche. Ma per questo basterebbe l’ecografia. Sta diventando possibile identificare un cromosoma 21 in eccesso sequenziando il Dna fetale nel sangue materno con un’affidabilità del 99 per cento. Questo vuol dire che una mamma potrà sapere in anticipo con una certezza quasi assoluta se suo figlio è Down o no, senza ricorrere agli esami fortemente invasivi oggi disponibili. L’amniocentesi e la villocentesi, sebbene siano considerati esami di routine, continuano ad avere una percentuale di aborto aggiuntivo causato dalla manovra di quasi l’1 per cento. In un caso su 150 si verificherà l’aborto in seguito alla manovra, indipendentemente dallo stato del feto.

Però la comunità scientifica sta continuando a muoversi anche in questa direzione...
Sono due filoni di ricerca assolutamente distinti: migliorare la capacità della diagnosi per identificare i feti Down e, di fatto, non farli nascere oppure lavorare per trovare una terapia e una cura. Dalla letteratura medica degli ultimi vent’anni emerge che le ricerche sulla diagnosi prenatale della sindrome di Down sono almeno dieci volte superiori a quelle finalizzate a trovare i meccanismi della malattia. Come diceva Lejeune, quando nella storia della medicina si è provato a sconfiggere una malattia eliminando i malati, questo non ha mai portato a un progresso della medicina stessa. Al di là dell’evidente problema etico, ce n’è anche uno scientifico.

Qual è quindi il vostro scopo?
Identificare composti naturali o farmaci la cui miscela potrebbe riuscire a inibire le attività che sono presenti in eccesso nelle cellule trisomiche. Questi potrebbero essere somministrati dopo la nascita, e forse anche prima. Noi stiamo concentrando gli studi a livello pediatrico. Ci sono già stati sviluppi in questa direzione nel mondo: in Spagna stanno studiando un inibitore naturale, un polifenolo che si estrae dal tè verde. I dati preliminari non parlano di risultati eclatanti ma è interessante il principio alla base dello studio.

In che tempi potreste riuscire a scoprire qualcosa di risolutivo?
Nella ricerca non si può mai prevedere nulla. Quello che è certo è che noi abbiamo preso una direzione precisa che potrebbe dare dei risultati concreti. Grazie alla mia esperienza ho capito che, quando si cerca una soluzione, qualcosa si trova sempre.

di Caterina Dall'Olio

Fonte: Avvenire del 27 agosto 2013

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